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Trapianto del rene: le sfide della tecnica e il rapporto con le famiglie

Il trapianto non finisce con l'intervento, ma è un percorso che continua nel tempo. Intervista al dott. Luca Dello Strologo, responsabile della Clinica del trapianto renale del Bambino Gesù

Il primo trapianto di rene all'Ospedale Bambino Gesù è stato eseguito nel 1993. Da allora il numero è salito a circa 400, inclusi diversi trapianti combinati cuore-rene o fegato-rene con una media di circa 30 interventi all'anno. Il dott. Luca Dello Strologo, responsabile della Clinica del trapianto renale, spiega il percorso che porta l'equipe medico-chirurgica ad intervenire, le cause che possono mettere l'intervento in discussione e le prospettive in questo settore.

Come si arriva al trapianto di rene?

Il trapianto è la conseguenza di una grave insufficienza renale, una condizione nella quale i reni non sono più in grado di depurare il nostro organismo dalle scorie, di eliminare l'acqua in eccesso e di mantenere quella che si chiama l'omeostasi – la stabilità - di tutti i sistemi. Per assicurare queste funzioni il paziente deve essere sottoposto alla dialisi. Tuttavia la qualità della vita viene a ridursi, soprattutto per un bambino. E' facile immaginare le conseguenze sulla frequenza scolastica e anche sulla vita di relazione con i coetanei di un ragazzino legato a una macchina tre volte a settimana per l'emodialisi, oppure tutte le sere per la dialisi peritoneale. E' chiaro che la possibilità di ricevere un rene sano cambia radicalmente la condizione di vita.

Da dove arriva l'organo per il trapianto?

Il rene può essere donato da un soggetto sano, vivente, che, in età pediatrica, è quasi sempre uno dei genitori. Oppure può arrivare da un donatore deceduto, sulla base di una lista di attesa pediatrica che ha carattere nazionale. La distribuzione degli organi viene assicurata con trasparenza assoluta dal Centro nazionale trapianti in modo tale che ogni bambino, in qualunque regione d'Italia, abbia la stessa possibilità di riceverlo. Ogni volta che si rende disponibile un organo, le sue caratteristiche vengono inserite in un computer che genera automaticamente un elenco di potenziali riceventi che vale solo per quell'organo. Per ogni organo che si rende disponibile, infatti, la sequenza dei donatori sarà diversa. In questo modo si avrà sempre la possibilità di dare l'organo al bambino che probabilmente avrà la possibilità di farlo durare più a lungo. Il Bambino Gesù è in questo momento il centro più grande. Abbiamo circa un terzo della lista trapianti nazionale: 35 bambini in attesa su circa un centinaio. L'ospedale ha investito molto su questa attività.

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Qual è il tempo di attesa?

Circa un anno, in media. Il bambino può essere inserito in lista prima che inizi la dialisi, anche se la probabilità che venga chiamato prima è piuttosto bassa. Nella donazione da vivente, invece, il genitore dona quando si ritiene opportuno, cioè quando il bambino è arrivato al punto di entrare in dialisi.

Come può accadere che un organo non sia adatto, come abbiamo visto in "Dottori in corsia" nella storia di Teodora?

La compatibilità cioè la giusta congruenza tra donatore e ricevente viene definita a priori da un computer che incrocia le caratteristiche del donatore e del ricevente. Esiste un esame finale che si chiama cross match con cui si mette fisicamente in contatto il sangue del ricevente con le cellule del donatore e se ci fosse un ostacolo, questo verrebbe "bloccato", come si dice in gergo. In realtà questo esame era molto più importante fino a 10-15 anni fa, ma oggi, con la possibilità di definire anche a livello molecolare la presenza degli anticorpi nel ricevente, la risposta del cross match è quasi sempre prevedibile.

Nel caso specifico di Teodora, dalle informazioni che avevamo l'organo destinato alla piccola poteva essere accettato, ma quando è arrivato qui, dopo un esame istologico, insieme con il patologo Onetti Muda e il chirurgo Spada, abbiamo deciso di non impiantare l'organo perché esisteva un rischio significativo che il tessuto fosse troppo danneggiato per poter riprendere una funzione soddisfacente. Le conseguenze, in questo caso sarebbero state gravi, anche in vista di un futuro nuovo trapianto. Occorre fare di tutto perché il trapianto abbia successo subito. E' una decisione che non può essere lasciata al genitore, ma deve essere assunta dal medico, in base all'esperienza e a una valutazione che si basa su criteri fissati a livello internazionale.

Quale impatto ha sulle famiglie e i piccoli pazienti? Come si gestisce l'attesa e la delusione in questi casi?

In realtà, per la maggior parte delle famiglie, è molto peggio la "calma piatta" – "non sono chiamato, non succede nulla" – piuttosto che essere chiamati per un organo che poi non è adatto. C'è la sensazione che qualcosa si muova: se non è oggi, sarà domani. Qui gioca un ruolo determinante il rapporto di fiducia tra pazienti, familiari e il centro che esegue il trapianto.  Devono sapere che noi facciamo del nostro meglio e fidarsi dei risultati che abbiamo raggiunto nel corso degli anni. C'è un dialogo aperto, ma il mondo del trapianto è molto tecnico e non si può condividere una valutazione su istologia ed eventuali danni con una famiglia. E' una decisione che per forza deve essere presa dall'équipe medico-chirurgica.

Bisogna costruire un rapporto di fiducia più che mai in questi casi…

E' vitale. Il trapianto non finisce con l'intervento. La sopravvivenza dell'organo dipende da cosa succederà dopo: i rigetti, le nefropatie, i danni da farmaci, le malattie, le infezioni… Tutta una serie di condizioni future dipendono strettamente da come gestiremo la situazione nel tempo. Ci saranno momenti difficili e il genitore in questi momenti deve potersi affidare con fiducia ai medici. Se viene a mancare l'alleanza è finita. Il Bambino Gesù ha 25 anni di esperienza nel campo dei trapianti. A 15 anni, il 77% degli organi è ancora funzionante. E' un dato eccellente che non teme confronti a livello internazionale e i genitori lo sanno.

Quando può arrivare un insuccesso?

E' sempre possibile, può verificarsi subito, già durante o subito dopo l'intervento: il rene non parte proprio. Oppure, in una fase successiva, a volte anche perché semplicemente il bambino, diventato adolescente e non più sotto il controllo familiare, sospende la terapia. Per capire come accada bisogna mettersi un po' nei loro panni. Molti bambini hanno malattie congenite, per cui nascono già con insufficienza renale. Da quando sono piccoli sono posti di fronte a una lunga serie di divieti: non mangiare cioccolata, non bere, non puoi andare alla gita… Dopo il trapianto, a 15-16 anni stanno finalmente bene e, con l'aiuto dei farmaci, riescono a condurre una vita normale. A quel punto può scattare l'impulso a recuperare il tempo perduto dell'infanzia e dell'adolescenza. Non hanno avuto il tempo di crescere. Vogliono diventare uomini e donne tutto in un colpo, facendo gli errori che gli altri distribuiscono in dieci anni. E ci riescono. E' facile che ci siano comportamenti sessuali a rischio o si cada nella tossicodipendenza. Accade anche che sospendano la terapia o la adattino a una propria personale tabella di somministrazione. E' la prima causa di perdita degli organi, non solo in Italia ma ovunque. La fascia d'età dai 17 ai 24 è la high risk window, una finestra d'alto rischio. Da noi la fascia a rischio è un po' spostata – verso i 19 anni - perché in Italia i diciassettenni subiscono ancora il controllo familiare. In Nord Europa e in Nord America il distacco è più precoce. Vengono compromessi molti trapianti in questo modo. Anche in questa fase è molto importante il rapporto di fiducia con il medico.

Cosa è cambiato dai primi trapianti del 1993 ad oggi?

L'impostazione è rimasta la stessa: dopo il trapianto, il bambino viene preso in carico dalla nostra equipe che gestisce tutti i protocolli immunosoppressivi relativi a un paziente che, qualunque vicenda medica affronti, ha la peculiarità di essere un trapiantato. Sono cambiati molto i farmaci e sono migliorate le procedure chirurgiche: oggi c'è l'intervento in laparoscopia del donatore che è un grosso vantaggio perché è molto meno invasivo. Una grande innovazione è il coordinamento infermieristico, con infermieri specializzati, che rappresenta il primo filtro verso il paziente per ogni problema si presenti. Soprattutto sono migliorate le sopravvivenze ed è migliorata molto la qualità di vita del ricevente. Tra l'altro, prima per un trapianto il bambino stava in ospedale per un mese e mezzo, oggi in 10-15 giorni lo mandiamo a casa.

Quali sono le prospettive?

Al Bambino Gesù vengono indirizzati i bambini con patologie sempre più complicate. Adesso stiamo sviluppando anche i programmi di trapianto in bambini con malattie metaboliche che pochi centri sono in grado di gestire. Non è un caso che il nostro ospedale sia a capo di un coordinamento mondiale per la definizione delle strategie di trapianto per una malattia metabolica rara che si chiama acidemia metilmalonica: insieme con i dottori Dionisi e Spada, cerchiamo di definire quale sia il protocollo ideale per questa patologia.

Eseguiamo trapianti sempre più complessi ricorrendo sempre più al trapianto da vivente. Questa è una vera innovazione. Negli ultimi 10 anni siamo passati dal 3% al 40% di trapianti da vivente. E' un grande cambiamento rispetto al passato e continueremo a lavorare in questa direzione. Magari in futuro sarà possibile passare anche alla chirurgia robotica.

Abbiamo una serie di sfide che ci aspettano. Ci sono sfide a livello tecnico, come le nuove metodiche di perfusione ex vivo dell'organo che è un tema che in questo momento riguarda più il fegato e il polmone che il rene, ma in futuro questo potrebbe cambiare. La possibilità di inserire questi organi in una macchina e farli durare un po' di più in modo tale da poter allungare il tempo di ischemia – cioè il tempo in cui l'organo non è perfuso, non è nella pancia del bambino – consente di migliorare il risultato una volta fatto il trapianto.

Lavoriamo molto sulla formazione condividendo la nostra esperienza. Al Bambino Gesù abbiamo gli specializzandi di Tor Vergata, Sapienza, Gemelli, S. Andrea e in tanti vengono per il master in nefrologia da varie parti d'Italia, oltre ai numerosi rapporti di collaborazione con l'estero. L'obiettivo è fare sempre meglio quello che stiamo già facendo.




 
 

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