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Queste sono le mie figlie

Una storia di forza, coraggio, istinto. Una madre, due gemelle, e un viaggio per ridare la vita

Donna, come ti chiami? - Non lo so.
Quando sei nata, da dove vieni? - Non lo so.
Perché ti sei scavata una tana sottoterra? - Non lo so.
Da quando ti nascondi qui? - Non lo so.
Perché mi hai morso la mano? - Non lo so.
Sai che non ti faremo del male? - Non lo so.
Da che parte stai? - Non lo so.
Ora c'è la guerra, devi scegliere. - Non lo so.
Il tuo villaggio esiste ancora? - Non lo so.
Questi sono i tuoi figli? - Sì.
(Wislawa Szymborska, poetessa polacca)

 

Gertrude non ha abiti con sé.
Non ha scarpe, né una borsa con le sue cose.
Non ha un telefono. Non parla nessuna lingua, solo il dialetto del suo villaggio in Burundi, il kirundi.
Non ricorda la sua data di nascita. Non sa quanti anni ha.
Non sa leggere, non sa scrivere.
Gertrude sa solo una cosa: è una madre.

C'è un sentimento, uno su tutti, che è trasversale alle culture, alle tradizioni, alle religioni. Che permea di sé ogni classe sociale, ogni livello di alfabetizzazione.
Esiste da sempre. Da prima di noi. Da prima del mondo.
E' l'amore di una madre per i suoi figli.
E' quell'istinto primordiale che prescinde da tutto perché supera ogni cosa. 

La maternità. Rinunciare a sé in nome di qualcosa più grande.

Gertrude siede su una poltrona, in una camera del reparto di Neonatologia Medica e Chirurgica dell'Ospedale Bambino Gesù. "Da quanto tempo sei qui? - Non lo so, non me lo ricordo".
Tra le mani tiene una fotografia a colori. Ritrae una bambina molto piccola. La stringe, senza guardarla.
Viene da un piccolo villaggio rurale di capanne del Burundi. L'attività agricola a cui lavorano tutti i membri dell'agglomerato di vite è rivolta alle produzioni per l'autoconsumo. "Se non lavorano, non mangiano", dice la donna che le è accanto, una mediatrice culturale che si fa chiamare Annunziata, anche lei originaria del Burundi, ma che vive in Italia da 20 anni, perché qui ha trovato l'amore. "Il mio nome vero qui non lo sa dire nessuno, è troppo complicato". Sorride.

"Sono molto poveri, non hanno nulla. Il lavoro per loro è la vita, molto più che qui da voi", dice. 

Geltrude ha lo sguardo rivolto verso il basso. Ha una timidezza speciale, che dona dolcezza al suo viso.
E poi ha quegli occhi, quelli di chi è abituato a rinunciare a sé, perché è genitore. Quelli che una madre e un padre sanno riconoscere.

Ha 36 anni, Gertrude. Otto figli, di cui cinque vivi. Qualche mese fa, nel suo paese, questa donna incinta sale su un motorino. Va a partorire, sente che è arrivato il momento. Lascia i suoi due figli, 12 e 4 anni, con il papà, e in sella a uno scooter percorre 25 km per raggiungere l'ospedale più vicino.
Nella piccola struttura sanitaria che la accoglie, Gertrude dà alla luce 3 gemelle: Jezerine, Adrienne, Francine.
Le ultime due sono siamesi. Congiunte nel bacino.
Lì, a Buhorana, non sono in grado di aiutarle. Viene deciso di trasferire subito la mamma e le gemelle nella lontana Bujumbura, in un centro medico più attrezzato. Ma anche qui, nella capitale burundese, i medici fanno capire a Gertrude che per queste due vite non ci sono speranze di sopravvivenza. Le consigliano di lasciarle lì, in Ospedale, e di tornare a casa con la piccola Jezerine. 

Gertrude non ha abiti con sé.
Non ha scarpe, né una borsa con le sue cose.
Non ha un telefono. Non parla nessuna lingua, solo il dialetto del suo villaggio in Burundi, il kirundi.
Non ricorda la sua data di nascita. Non sa quanti anni ha.
Non sa leggere, non sa scrivere.
Ma sa una cosa: quelle bimbe andranno via con lei. E sopravvivranno.

La speranza diventa occasione quando Gertrude incontra Celestine, una donna che lavora per un'associazione italiana, Kamar, che prende contatto con il Bambino Gesù e si fa carico delle spese del viaggio aereo verso Roma.  

Gertrude, Adrienne e Francine arrivano in Ospedale il 30 agosto. Vengono accolte nel reparto di Neonatologia, dove quell'unico corpo dove abitano due vite, sarà trasformato in due.

Gertrude non sa nulla, eppure l'istinto l'ha guidata fino a lì. Dietro di sé ha lasciato i figli più grandi, che sono nel villaggio con il papà, la piccola Jezerine, ospite in un istituto di suore nel suo paese, il suo lavoro, il marito. E lo ha fatto guidata da un'unica grande risorsa: l'attaccamento alla vita.

Annunziata racconta la sua storia, la conosce bene. Gertrude non ha che lei qui, con cui parlare. Si alza, mostra la foto che tiene in mano. "Sono mesi che non la vedo, chissà se si ricorderà di me", dice alla mediatrice, perché lo riferisca.
Indossa una grande gonna colorata di cotone. Una maglietta bianca che apre e chiude per allattare le bambine. Ai piedi, un paio di ballerine rosse.

"Non aveva mai indossato le scarpe", dice Annunziata, e non aveva mai visto un gabinetto". Riferisce a Gertrude, e insieme sorridono. Si piega sul lettino che ospita le sue gemelle, le solleva con naturalezza, le gira.
"Ogni tanto le inverte, perché ha paura che si annoino sempre nella stessa posizione", riporta la mediatrice.

Poi le accarezza. Le copre. Apre l'armadietto, prende una cartellina con scritto in stampatello il suo nome. Sceglie una penna, con cura, e la infila nella tasca. Ogni mattina, alle 11.30, si presenta in aula per la lezione di italiano. L'Istituto comprensivo Virgilio ha avviato insieme all'Ospedale un percorso di alfabetizzazione per quei pazienti umanitari che, ad integrazione del percorso di cura, necessitano di una formazione scolastica speciale.

Queste sono le mie figlie

Così Gertrude, che non ha mai avuto bisogno di leggere, di scrivere, di conoscere i suoni delle lettere dell'alfabeto, né di scandire i ritmi della giornata con le lancette dell'orologio, si trova adesso a dover studiare per essere un supporto alle sue bambine. Perché avranno bisogno di farmaci, e lei dovrà leggere una ricetta medica, e obbedire a un orologio che indicherà il momento della pappa o della medicina.

Gertrude non sa perché sta facendo questo. Eppure lo fa. Non sa perché deve impugnare quella penna, e lasciare tracce su un foglio, eppure si lascia guidare dal maestro, anche se non sa cosa sia, quel monitor che emette suoni davanti a lei.

Ride, Gertrude, quando ascolta la sua voce pronunciare parole in italiano.

A fine lezione, prima di lasciarla, la mediatrice le riporta qualche domanda:
"Ti serve qualche vestito?No.
Una giacca, delle scarpe?No.
Hai bisogno di altro?No.
Vuoi tornare dalle tue bambine?."

Gertrude non aveva abiti con sé. 
Non aveva scarpe, né una borsa con le sue cose. 
Non un telefono. Non parlava nessuna lingua, solo il dialetto del suo villaggio in Burundi, il kirundi. 
Non ricordava la sua data di nascita. Non sapeva la sua età. 
Non sapeva leggere, non sapeva scrivere.
Gertrude sapeva solo di essere una madre.




 
 

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